Nel
1961 Hannah Arendt, inviata a Gerusalemme, dal settimanale New
Yorker, seguì le 120 sedute del processo Eichmann, criminale
nazista, il quale fu condannato a morte mediante impiccagione con
sentenza eseguita il 31 maggio del 1962. Otto Adolf Eichmann,
militare tedesco, non era mai andato oltre il grado di
tenente-colonnello, ma, per l'ufficio ricoperto, durante la seconda
guerra mondiale, aveva svolto una funzione importante, su scala
europea, nella politica del regime nazista, coordinando
l'organizzazione dei trasferimenti degli ebrei verso i vari campi di
concentramento e di sterminio, funzione che portò a termine con la
massima efficienza anche quando era chiaro che la Germania, ormai
ridotta in macerie, aveva perso la guerra; i treni di Eichmann
continuarono a trasportare, in modo efficiente, i prigionieri ebrei
verso la morte. Nel maggio 1960 agenti israeliani catturarono
Eichmann in Argentina, dove si era rifugiato, e lo portarono a
Gerusalemme per processarlo in un tribunale israeliano. La sua
difesa si incentrò sullo spostamento dalla responsabilità
personale, che dovrebbe essere di origine ontologico-morale, alla
responsabilità formale incentrata sull' obbedienza agli ordini:
Eichmann tenne a precisare che, obbediva agli ordini e che, in fondo,
si era occupato soltanto di trasporti, tutte giustificazioni
banali mancanti totalmente di originalità
che hanno dato luogo a comportamenti e discorsi acritici, scontati e
ovvi.
Arendt
pubblicò Il resoconto di quel processo e le considerazioni che lo
conclusero nel settimale New Yorker in seguito riunite,
nel1963, nel libro La banalità del male (Eichmann a
Gerusalemme) continuando una riflessione iniziata nel 1940 in cui
analizzava il Totalitarismo, riflessione presente anche ne: Le
Origini di Totalitarismo del 1951.
Quando
vide Eichmann Arendt notò come, già la sola presenza fisica,
potesse offrire una prima riflessione in quanto, l' autore di azioni criminali, definite mostruose, erano state compiute da una persona “normale”,
rispetto per esempio alle teorie lombrosiane, a cui le definizioni
che comunemente si usavano per “isolare il male”, nel caso dei
crimini di Eichmann, non erano pertinenti e apparivano inadeguate per
cui non era più corretto usare, per chi dà la morte, la provoca o
ne è complice e commette crimini contro l' umanità, i termini: demoniaco, mostruoso, pazzo o animalesco.
Andando più in profondità, Arendt percepì Eichmann come un uomo
comune, caratterizzato dalla sua superficialità e mediocrità che la
lasciarono stupita nel considerare invece il male che lui aveva
commesso. Ciò che Arendt scorgeva in Eichmann non era neppure
stupidità ma qualcosa di completamente negativo: l'incapacità di
pensare autonomamente.
Eichmann aveva sempre agito all'interno dei ristretti
limiti permessi dalle leggi e dagli ordini, e questa incapacità di
andare oltre, fu la componente fondamentale di quella che può essere
vista come una cieca obbedienza che si rivelò devastante per i danni
prodotti. Un gruppo di uomini mediocri era stato capace di dare forma
a un male storico assolutamente originale con il silenzio complice e
colpevole di una grande massa di altri uomini, non pensanti,
altrettanto mediocri. Eichmann non era l'unica persona che appariva
normale mentre gli altri burocrati apparivano come mostri, ma vi era
una massa compatta di uomini perfettamente “normali" i cui
atti erano mostruosi. Dietro questa "terribile normalità"
della massa burocratica, che era capace, attraverso uomini normali,
di commettere le più grandi atrocità che il mondo avesse mai visto,
la Arendt rintraccia la questione della "banalità del male",
della persona normale che non pensa e si omologa, punto cruciale
della riflessione arendtiana perchè, se le persone avessero pensato,
con la sola facoltà di pensare si potevano evitare le azioni
malvagie. La
banalità del male da cui origina la capacità di agire il male si
pone nella omologazione acritica che impedisce la capacità di
distinguere tra giusto e sbagliato, anestetizza la facoltà di
giudizio, e le relative implicazioni ontologico-morali. Questa
"normalità" fa sì che alcuni atteggiamenti comunemente
ripudiati dalle società - in questo caso i programmi della Germania
nazista - trova luogo di manifestazione nel cittadino comune, che non
riflette sul contenuto delle regole ma le applica
incondizionatamente: Eichmann ha introdotto il pericolo estremo
della irriflessività, della incapacità di mettere in questione, di
riconoscere il male e di reagire evitandolo. Uomini come Eichmann
erano tanti e quei tanti non erano né perversi né sadici, bensì
erano, terribilmente normali ed è stata questa normalità la più
spaventosa di tutte le atrocità messe insieme, poiché implica -
come fu detto e ripetuto a Norimberga dagli imputati e dai loro
patroni - che questo nuovo tipo di criminale, realmente "hostis
generis humani", commette i suoi crimini in circostanze che
quasi gli impediscono di accorgersi o di sentire che agisce
male. L'analisi delle interrelazioni fra la facoltà di pensare,
la capacità di distinguere tra giusto e sbagliato, la facoltà di
giudizio, e le loro relative implicazioni morali, come detto sopra
rappresentano il nucleo tematico dell'opera.
Per
tentare di dare delle risposte Arendt si è chiesta se la facoltà di
pensare, sia veramente un percorso risolutivo per la possibilità di
evitare di fare il male o perlomeno quel male che secondo lei
origina nella banalità che, fino a quel momento veniva analizzato
con categorie standard tradizionali tendenti a isolarlo e
allontanarlo perchè si pensava agito da persone con patologie, per
interesse personale, gelosie, invidie, o da persone possedute dal
demonio, categorie interpretative necessarie a preservare proprio l'
uomo normale ritenuto moralmente integro e ricondotto a una sola
unità: l' unità ideologica giuridico-morale a cui si risponde con
la relativa condanna ideologica di chi fa il male da parte della
società. Arendt si domandò se la dimensione di male è una
condizione necessaria di fare il male, in altre parole: il
fenomeno del male ha necessariamente una radice desiderata?
Era innegabile che queste nuove domande del fenomeno del male, le cui
radici non erano ancorate negli standard filosofici, morali,
religiosi positivistici tradizionali, apriva una prospettiva nuova
sul comprensione del male. Questa riflessione sul male è presente
anche nelle prime pagine dell'introduzione a: La Vita della Mente
e si rifà sempre alla riflessione sul processo Eichmann in cui
Arendt disse: mi sono sentita scioccata perché tutto questo
contraddice le nostre teorie di male. La perplessità davanti ad
un fenomeno che ha contraddetto le teorie note di male, e la
relazione chiara tra il problema di male e la facoltà di pensare,
era quello che Arendt aveva espresso con la frase: la banalità
del male, anche in occasione della riflessione sul
totalitarismo, dovuto all'esistenza di un nuovo genere di male, il
male assoluto, che, non poteva essere a lungo spiegato e capito
con malvagie ragioni di egoismo, avidità, bramosia, risentimento,
sete per potere, e codardia. Arendt sosteneva che la tradizionale
comprensione del male non era di nessun aiuto, riferita a questa
variante moderna, e ha voluto seguire il processo probatorio ad
Eichmann, del quale ha riferito per il New Yorker, per
confrontare chiarificare le sue idee. Come può dunque la capacità
di pensare muoversi in modo da evitare il male? Per prima cosa,
secondo Arendt, gli standard etici e morali basati sulle abitudini e
sulle usanze hanno dimostrato di poter essere cambiati da un nuovo
insieme di regole di comportamento dettate dall'attuale società.
Nella nuova società, pur fortemente coercitiva, poche persone non
aderiscono al regime e Arendt prende in esame questo gruppo per
capire come mai molti aderiscono alla massificazione e pochi vi
resistono. A tale domanda risponde in maniera semplice: i non
partecipanti, chiamati irresponsabili dalla maggioranza, sono gli
unici che osano essere giudicati da loro stessi e sono capaci
di farlo, non perché posseggano un miglior sistema di valori o
perché i vecchi standard di giusto e sbagliato siano
fermamente radicati nella loro mente e nella loro coscienza, ma
perché essi pensano e si domandano fino a che punto sarebbero
capaci di vivere in pace con loro stessi dopo aver commesso certe
azioni e decidono che è meglio non fare il male e, questa facoltà
di pensare, porta a questo giudizio. Questa presupposizione non
necessita di una elevata intelligenza ma semplicemente l'abitudine,
in particolare, di vivere abbastanza serenamente con se stessi e con
gli altri, che significa, essere occupati in un dialogo silenzioso
tra io e sé e tra io e l' altro, che da Socrate è stato chiamato
"pensare".
L'incapacità
di pensare non è stupidità: può essere presente nella gente più
intelligente e la malvagità non è la sua causa, ma è necessaria
per causare grande male; dunque il male può provenire da chiunque
non pensi e l'uso del pensiero previene il male.
Una
delle questioni principali di Arendt è il fatto che un' intera
società può sottostare ad un totale cambiamento degli standard
morali senza che i suoi cittadini emettano alcun giudizio circa ciò
che sta accadendo. Questa riflessione apre alla responsabilità della
politica che omologa i cittadini, li anestetizza e non permette loro
gli spazi contemplati dalla democrazia che dovrebbe essere
partecipata, ma questo è un altro discorso. Come si può rimediare
al male derivato dalla banalizzazione? Arendt sceglie Socrate come
suo modello: un pensatore che, ponendosi la domanda: come devo
comportarmi verso l' altro?, avvia la riflessione
filosofico-morale introducendo un modo di pensiero, per prevenire il
male, rintracciandolo nel processo del pensare. Questo pensare per
Socrate provoca essenzialmente la perplessità che ha il potere di
dislocare gli individui dalle loro regole di comportamento ponendosi
degli interrogativi e dei dubbi. Socrate è stato messo a morte
perchè, pensare in proprio, è la peggior cosa che si possa fare, in
una società patriarcale basata sul dominio: nel corso della Storia tutti
i poteri hanno ritenuto pericoloso l' uomo ma soprattutto la donna
che pensa e chi non accetta l' omologazione reagendo con i
rinchiudimenti o dando la morte legittimamente.
La capacità di
pensare ha dunque la potenzialità di mettere l'uomo di fronte ad un
quadro bianco senza bene o male, senza giusto o sbagliato, ma
semplicemente attivando in lui la condizione per stabilire un dialogo
con se stesso e permettendogli dunque di deliberare un giudizio circa
tali eventi. Arendt
mette in guardia l' uomo ed lo invita ad andare contro l'adesione
acritica a ogni tipo di standard morale, sociale o legale senza
esercitare la capacità di riflettere, basata sul dialogo con se
stesso, circa il significato degli avvenimenti; in altre parole la manifestazione del
pensiero è capace di provocare perplessità e obbliga l'uomo a
riflettere e a pronunziare un giudizio. La banalità del male che
appare attraverso Eichmann rende evidente come il fenomeno del male
può mostrare la sua faccia attraverso una normalità definita,
imposta, omologante e pericolosa. In un trattato scritto per un
dibattito su "Eichmann a Gerusalemme" nel Collegio Hofstra
nel 1964 si può trovare la sintesi del pensiero di Arendt sul male:
il
male non è mai radicale per cui banalità del male significa male
senza radici cioè un male che non è
radicato nei motivi cattivi, come può essere la tradizione del male di Caino, pulsionali o nella
forza di tentazione; il male è soltanto
estremo, e non possedendo né radici profonde né una dimensione
demoniaca, proprio per questo, esso può invadere e devastare tutto
il mondo perché cresce in superficie come un fungo e sfida, il
pensiero, unico nemico vero del male, perché il pensiero cerca di
raggiungere la profondità, andare a radici, ma il male non si fa
trovare poiché nelle società contemporanee, definite liquide, il
pensiero viene ucciso e il male permea tutte le superfici: tutto
questa è la sua banalità.
Queste
le riflessioni di Arendt, che ha problematizzato il totalitarismo
seguito alla crisi del liberalismo e il tipo di male particolare e
originale prodotto da questi fatti storici e nelle società contemporanee, le più pertinenti per
spiegare il male che esiste intorno a noi e che, attualmente, si è
esteso in modo esponenziale, complice la distruzione di complessità,
la devitalizzazione della democrazia e il trionfo di pensieri
omologanti e normalizzanti.
Sulla riflessione di Arendt si può
applicare la valutazione di genere, aspetto della conoscenza mai
presente direttamente nella sua speculazione ma indispensabile nella
proposta culturale degli studi di genere. Si
può iniziare con il dire che il male è nel DNA della cultura
occidentale e deriva dal “peccato originale” del percorso duale
di superiorità maschile e inferiorità femminile che ha portato
civiltà ma anche violenze e ingiustizie. Gli stereotipi di genere
che inchiodano l' uomo alla virilizzazione dimostrativa continua e
contemporaneamente, la femminilizzazione forzata, sono l' aspetto
fondamentale della banalità del male, che agisce come un anestetico
affettivo e sociale, origine di azioni violente e pericolose perchè
fortemente incorporate in una umanità sottoposta continuamente a
coercizioni omologanti le cui radici, ancora oggi, non si vogliono
analizzare in profondità, giustificate da una naturalizzazione che
non ha niente di naturale ma è stata storicamente imposta dalla
cultura patriarcale. Poi si può affermare che la banalità del male
è maschile perchè maschile
è ed è stata, storicamente, la gestione del potere, e l' “offerta”
organizzativa sociale e politica di tipo patriarcale che orienta e
agisce il dominio e la violenza sui più deboli della società ed è
sempre utile ricordare che il dominio e la violenza maschili
sulle donne è la più antica e persistente forma di oppressione
esistente, ritenuta “giusta” perchè naturalizzata. Se
non ci si decide a mettere radicalmente in discussione il
patriarcato, produttore e generatore di male fin dalle origini, già
finito a causa della debolezza dell' uomo, ma mai problematizzato a
fondo, per cui generatore di male arendtiano, ci sarà sempre un “zio
Michele” o un Giovanni Vantaggiato che “inadeguati a pensare” e
per motivi banali uccidono e non sapendo perchè e chi uccidere o
sapendolo scelgono vittime innocenti, di solito donne o
donne-bambine, le esistenze più deboli di una società incapace a
ricrearsi responsabilmente.
Lorenza
Cervellin, esperto di pari opportunità, cittadinanza di genere,
integrazione sociale. www.opportunitapari.blogspot.com
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