giovedì 20 febbraio 2014

GRILLO E L' UNDICESIMO COMANDAMENTO

  La diretta streaming del giorno 19 febbraio 2014, protagonisti due maestri di comunicazione, sconfitti entrambi agli occhi dei cittadini, inducono a una riflessione radicale e a un ripensame- to sulla cultura della comunicazione e dell' informazione.
  Io confesso la mia simpatia per Grillo a causa della sua continua e giusta disperazione civile mentre ho un moto di disappunto per il tono pedagogico di Renzi, un tono da primo della classe poco elegante e privo di contenuti, lo stesso tono di Letta anche se più informale.

 Le riflessioni

  •   Per quanto ancora si pensa di approcciarsi al Movimento 5 stelle con toni pedagogici e di critica supponente e radicale?
  •   I contenuti dello streaming erano prevedibili ma forse non era prevedibile il punto di non ritorno di un tipo di comunicazione che Renzi pensava di dominare mentre  Grillo lo ha usato per  rivelare una forma politica rituale ormai priva di sostanza, quindi inutile.
  •   Ancora più profonda la riflessione sulla "disperazione" di Grillo di fronte alla stampa, una stampa che sembra non accorgersi di non essere più stampa ma un simulacro con caratteristiche itinerantico-circensi che non serve più ai cittadini se non per attuare un disorientamento strategico e scientifico a coprire i giochi politici del padrone di riferimento.  

  La memoria va alla lettura del libro di Milan Kundera L' immortalità. All' interno di questo libro vi è contenuta una critica lucida e pertinente della professione del giornalista. 

L' undicesimo comandamento

  Un tempo la gloria del giornalista poteva essere simboleggiata dal grande nome di Ernest Hemingway. Tutta la sua opera, il suo stile sobrio e conciso, avevano le radici nei reportages che da giovane inviava al giornale di Kansas City. Essere un giornalista allora significava avvicinarsi più di chiunque altro alla realtà, penetrare in tutti i suoi angoli nascosti, sporcarcisi dentro le mani. Hemingway era orgoglioso che i suoi libri fossero al tempo stesso così ancorati alla terra e così alti nel firmamento dell'arte.

  Tuttavia, quando dice dentro di sé la parola giornalista (e questa parola oggi in Francia è usata anche per chi lavora alla radio e alla televisione e persino i fotografi dei giornali), Bertrand non pensa a Hemingway, e il genere letterario in cui desidera eccellere non è il reportage. Sogna piuttosto di pubblicare su un settimanale influente editoriali che farebbero tremare tutti i colleghi di suo padre. Oppure interviste. Chi è del resto il più memorabile giornalista degli ultimi tempi? Non Hemingway, che scriveva delle sue avventure in trincea, non Orwell, che passò un anno della sua vita con i poveri di Parigi, non Egon Erwin Kisch, che conosceva tutte le prostitute di Praga, ma Oriana Fallaci, che tra il 1969 e il 1972 pubblicò sul settimanale italiano “L'Europeo” una serie di conversazioni con i più famosi politici dell'epoca. Quelle conversazioni erano più che semplici conversazioni; erano dei duelli. I potenti politici, prima ancora di capire che si battevano in condizioni impari - perché le domande poteva farle solo lei e non loro - già si contorcevano K.O. sul pavimento del ring.

  Quei duelli erano un segno dei tempi: la situazione era mutata. Il giornalista aveva capito che fare domande non era solo il metodo di lavoro del reporter, che conduce modestamente le sue indagini munito di taccuino e matita, ma era un modo di esercitare il potere. Il giornalista non è una persona che fa domande, ma è una persona che ha il sacro diritto di fare domande a chiunque su qualunque cosa. Ma non abbiamo forse tutti questo diritto?

  E la domanda non è forse il ponte della comprensione gettato da un uomo a un altro? Forse. Preciso dunque la mia affermazione: il potere del giornalista non si fonda sul diritto di fare domande ma sul diritto di pretendere una risposta.

  Notate bene, prego, che Mosè non ha incluso fra i dieci comandamenti di Dio “Non mentire”. Non è un caso! Perché chi dice: “Non mentire”, prima ha detto per forza: “Rispondi”, e Dio non ha dato a nessuno il diritto di pretendere dal prossimo una risposta. “Non mentire”, “rispondi la verità” sono parole che un uomo non dovrebbe mai dirle, ma Dio non ha alcun motivo di farlo, visto che sa tutto e non ha bisogno della nostra risposta.
  Fra chi ordina e chi deve obbedire non c'è una disuguaglianza tanto radicale quanto fra chi ha il diritto di pretendere una risposta e chi ha l'obbligo di rispondere. Per questo da tempi immemorabili il diritto di pretendere una risposta viene accordato solo in casi eccezionali. Ad esempio, al giudice che indaga su un crimine. Nel nostro secolo di questo diritto si sono appropriati gli Stati fascisti e comunisti e non in situazioni eccezionali ma in modo permanente. I cittadini di quei paesi sapevano che poteva sempre arrivare il momento in cui sarebbero stati invitati a rispondere: che cosa hanno fatto ieri? che cosa pensano nel fondo dell'animo? di che cosa parlano quando si incontrano con A? hanno rapporti intimi con B? Proprio questo imperativo sacralizzato, “rispondi la verità!”, questo undicesimo comandamento alla cui forza non hanno saputo resistere, ha fatto di loro una massa di poveri infantilizzati.
  Talvolta naturalmente si trovava un qualche C niente affatto disposto a dire di che cosa aveva parlato con A, e che, per ribellarsi (era spesso la sua unica possibile ribellione), invece della verità diceva una bugia. Ma la polizia lo sapeva e di nascosto faceva installare nel suo appartamento dei microfoni. Non lo faceva certo per ragioni immorali, ma perché si venisse a sapere la verità che il bugiardo C nascondeva. Si atteneva unicamente al suo sacro diritto di esigere una risposta.
  Nei paesi democratici chiunque mostrerebbe la lingua a un poliziotto che osasse domandargli di che cosa ha parlato con A e se ha rapporti intimi con B. Ciò nondimeno anche qui l'undicesimo comandamento impera, in tutta la sua forza. Un qualche comandamento deve pur dominare sulla gente come il nostro ormai pressoché dimenticato! Tutto l'edificio morale del nostro tempo si fonda sull'undicesimo comandamento e il giornalista ha capito che, in virtù di una segreta delibera della storia, tocca a lui diventarne l'amministratore, il che gli conferisce un potere che finora né uno Hemingway né un Orwell si erano mai sognati.
  Questo fatto è apparso chiaro come il sole quando i giornalisti americani Carl Bernstein e Bob Woodward hanno svelato con le loro domande le sporche manovre del presidente Nixon durante la campagna elettorale e hanno costretto così l'uomo più potente del pianeta prima a mentire pubblicamente, poi ad ammettere pubblicamente che mentiva e infine ad andarsene a testa bassa dalla Casa Bianca. Tutti allora applaudimmo, perché era stata fatta giustizia. Paul oltre a ciò applaudiva perché in quell'episodio intuiva un grande mutamento storico, una pietra miliare, il momento indimenticabile in cui si giunge al cambio della guardia; era apparso un potere nuovo, unico, in grado di detronizzare il vecchio professionista del potere quale era stato fino ad allora l'uomo politico. Detronizzarlo non con le armi o con gli intrighi, ma con la pura forza dell'interrogare.
  “Rispondi la verità” dice il giornalista e noi a nostra volontà possiamo chiederci quale sia il contenuto della parola verità per chi amministra l'istituzione dell'undicesimo comandamento. Per non creare malintesi, sottolineiamo che non si tratta della verità di Dio, per la quale morì sul rogo Jan Hus, né della verità della scienza e del libero pensiero, per la quale fu bruciato Giordano Bruno. La verità che risponde all'undicesimo comandamento non riguarda né la fede, né il pensiero, è la verità del livello ontologico più basso, la verità puramente positivistica dei fatti: dove è stato ieri C; che cosa pensa veramente in fondo all'animo; di che cosa parla quando si incontra con A; e se ha rapporti intimi con B. Nondimeno, pur appartenendo al livello ontologico più basso, questa è la verità dei nostri tempi, dotata della stessa forza esplosiva che un tempo aveva la verità di Hus o di Giordano Bruno. “Ha avuto rapporti intimi con B” domanda il giornalista. C, mentendo, afferma di non conoscere B. Ma il giornalista ride sotto i baffi, perché il fotografo del suo giornale già da un pezzo ha fotografato di nascosto B nuda tra le braccia di C e dipende solo da lui in che momento rendere pubblico lo scandalo insieme alle affermazioni del bugiardo C, che vigliaccamente e spudoratamente sostiene di non conoscere B.
  È tempo di elezioni, il politico salta dall'aereo all'elicottero, dall'elicottero alla macchina, si agita, suda, ingoia il pranzo di corsa, grida nel microfono, pronuncia discorsi di due ore, ma alla fine dipenderà da un Bernstein o da un Woodward quale delle cinquantamila frasi da lui pronunciate comparirà sulle prime pagine dei giornali o sarà citata alla radio. Appunto per questo il politico vorrà intervenire direttamente, alla radio o alla televisione, ma lo potrà fare solo passando attraverso un'Oriana Fallaci, che è padrona del programma e gli farà le domande. Il politico, volendo approfittare del momento in cui finalmente sarà visto da tutta la nazione, cercherà di dire in un fiato tutto ciò che gli sta a cuore, ma Woodward gli chiederà solo cose che non gli stanno affatto a cuore e di cui non vuole parlare. Si troverà così nella classica situazione del liceale interrogato alla lavagna e tenterà di usare un vecchio trucco: fingerà di rispondere alla domanda, ma in realtà parlerà di quello che aveva preparato a casa per la trasmissione. Purtroppo è un trucco che, se funzionava un tempo con il professore, non funziona con Bernstein, il quale lo rimprovera spietatamente: “Lei non ha risposto alla mia domanda!”.
  Chi avrebbe voglia oggi di fare la carriera politica? Chi vorrebbe farsi interrogare alla lavagna per tutta la vita? Certamente non il figlio del deputato Bertrand Bertrand. Milan Kundera, L' immortalità, pp. 124-128, Adelphi, 1990.

L'imagologia

  Il politico dipende dal giornalista. Ma da chi dipendono i giornalisti? Da chi li paga. E a pagarli sono le agenzie pubblicitarie, che per la loro pubblicità comprano lo spazio sui giornali e il tempo alla televisione. A tutta prima c'è da credere che esse debbano rivolgersi senza esitare ai giornali che hanno una grande tiratura e che possono quindi incrementare le vendite del prodotto offerto. Ma questa è una visione ingenua della faccenda. La vendita del prodotto c'entra meno di quanto pensiamo. Basta guardare i paesi comunisti: non si può certo affermare che i milioni di ritratti di Lenin appesi ovunque andiate possano aumentare l'amore per Lenin.
  Le agenzie pubblicitarie del partito comunista (le cosìddette sezioni di agitazione e propaganda) già da tempo hanno dimenticato lo scopo pratico della loro attività (far amare il sistema comunista) e sono diventate esse stesse il proprio scopo: hanno creato una loro lingua, le loro formule, una loro estetica (i direttori di queste agenzie avevano un tempo potere assoluto sull'arte dei loro paesi), un loro stile di vita, che coltivano, diffondono e impongono alle povere nazioni.
  Obiettate che pubblicità e propaganda non sono paragonabili, perché una è al servizio del commercio e l'altra dell'ideologia! Non capite niente. Circa cento anni fa in Russia i marxisti perseguitati iniziarono a riunirsi segretamente in piccoli circoli per studiare il Manifesto di Marx; semplificarono il concetto di ideologia per diffonderla in circoli più ampi, i cui membri, dopo aver ulteriormente semplificato quella semplificazione del semplice, continuarono a tramandarla e a diffonderla sempre più, finché, quando il marxismo divenne noto e potente in tutto il pianeta, di esso non restava altro che una raccolta di sei o sette slogan, legati tra loro così stentatamente che è difficile chiamarlo ideologia.
  E proprio perché ormai da tempo ciò che è rimasto di Marx non costituisce più un sistema logico di idee, bensì unicamente una serie di immagini e di slogan suggestivi (l'operaio che sorride impugnando il martello, il negro, il bianco e il giallo che si tengono fraternamente per mano, la colomba della pace che spicca il volo verso il cielo, eccetera, eccetera), a buon diritto possiamo parlare di una graduale e planetaria trasformazione dell'ideologia in imagologia.
  Imagologia! Chi ha inventato per primo questo magnifico neologismo? Io o Paul? Ma questo in fin dei conti non importa. Importa invece che questa parola ci consenta finalmente di riunire sotto lo stesso tetto cose che hanno nomi diversissimi: le agenzie pubblicitarie; gli esperti di immagine al servizio degli uomini di Stato; i designer che progettano la linea delle automobili e l'attrezzatura delle palestre; i creatori di moda; i barbieri; le star dello show business che fissano la norma della bellezza fisica, alla quale ubbidiscono tutti i rami dell'imagologia.
  Gli imagologi, naturalmente, esistevano assai prima di creare la loro potente istituzione, così come la conosciamo oggi. Anche Hitler aveva il suo imagologo personale, che pazientemente, in piedi davanti a lui, gli mostrava quali gesti eseguire durante i comizi per affascinare le masse. Ma se quell'imagologo, in un'intervista ai giornali, avesse fatto ai tedeschi un divertente ritratto di Hitler incapace di muovere le mani, non sarebbe sopravvissuto alla sua indiscrezione più di mezza giornata. Oggi invece l'imagologo non solo non nasconde la sua attività, ma addirittura parla spesso lui al posto dei suoi uomini di Stato, e spiega al pubblico che cosa gli ha insegnato a fare e a non fare, in che modo essi metteranno in pratica le sue istruzioni, quali formule utilizzeranno e quale cravatta indosseranno. E non stupiamoci della sua sicurezza: l'imagologia ha riportato negli ultimi decenni una vittoria storica sull'ideologia.
Tutte le ideologie sono state sconfitte: i loro dogmi sono stati infine smascherati come illusioni e la gente ha smesso di prenderli sul serio. I comunisti, ad esempio, credevano che con lo sviluppo del capitalismo il proletariato sarebbe diventato sempre più povero, e quando un giorno fu dimostrato che gli operai di tutta Europa andavano al lavoro in macchina, essi sentirono una gran voglia di gridare che la realtà barava. La realtà era più forte dell'ideologia.   E proprio in questo senso l'imagologia l'ha superata: l'imagologia è più forte della realtà, che del resto da molto tempo ha smesso di essere per l'uomo quello che era per mia nonna, la quale viveva in un paese della Moravia e conosceva ancora tutto per esperienza personale: come si cuoce il pane, come si costruisce una casa, come si uccide il maiale, come si fa affumicare la carne, come si imbottiscono i piumini, che cosa pensavano del mondo il parroco e il maestro; ogni giorno incontrava tutto il villaggio e sapeva quanti omicidi erano stati commessi nei dintorni da dieci anni a quella parte; aveva, per così dire, un controllo personale sulla realtà, cosìcché nessuno poteva darle a bere che l'agricoltura in Moravia era fiorente se in casa non c'era da mangiare.
  A Parigi, il mio vicino passa il suo tempo in un ufficio, dove siede per otto ore di fronte a un altro impiegato, poi monta in macchina, torna a casa, accende la televisione e quando l'annunciatore lo informa che secondo un sondaggio d'opinione la maggioranza dei francesi ha deciso che la Francia è il paese più sicuro d'Europa (è un sondaggio che ho letto poco tempo fa), per la gioia apre una bottiglia di champagne, e non saprà mai che proprio quel giorno nella sua strada sono stati commessi tre furti e due omicidi.
  I sondaggi d'opinione sono lo strumento decisivo del potere imagologico, che grazie ad essi vive in assoluta armonia con la gente. L'imagologo bombarda la gente di domande: L'economia francese è prospera? Ci sarà la guerra? Esiste il razzismo in Francia? Il razzismo è una cosa buona o cattiva? Chi è il maggior scrittore di tutti i tempi? L'Ungheria è in Europa o in Polinesia? Chi è l'uomo di Stato più sexy del mondo? E poiché la realtà per l'uomo d'oggi è una terra sempre meno frequentata, e del resto a buon diritto non amata, i risultati dei sondaggi sono diventati una sorta di realtà superiore, oppure per dirla diversamente: sono diventati la verità. I sondaggi d'opinione sono un parlamento in seduta permanente che ha il compito di creare la verità, ed è la verità più democratica che sia mai esistita. Poiché non si troverà mai in contrasto con il parlamento della verità, il potere degli imagologi vivrà sempre nella verità, e anche se so che tutto ciò che è umano è mortale, non riesco a immaginare che cosa potrebbe spezzare questo potere. 
  Sul confronto tra ideologia e imagologia voglio aggiungere ancora questo: le ideologie erano come ruote gigantesche dietro le quinte, che giravano e mettevano in moto guerre, rivoluzioni e riforme.
  Anche le ruote imagologiche girano, ma questo non ha effetto sulla storia. Le ideologie si facevano guerra una con l'altra e nessuna era in grado di riempire con il suo pensiero un'intera epoca. L'imagologia organizza da sé il pacifico avvicendarsi dei suoi sistemi all'agile ritmo delle stagioni. Per dirla con Paul: le ideologie facevano parte della storia, mentre il dominio dell'Imagologia inizia là dove la storia finisce.
    La parola cambiamento, così cara alla nostra Europa, ha acquistato un senso nuovo: non significa una nuova fase nell' ambito di una continua evoluzione (come lo intendevano Vico, Hegel o Marx), bensì uno spostamento da un luogo all'altro, da una parte all'altra, da qui indietro, da dietro a sinistra, da sinistra in avanti (così come lo intendono i sarti, che inventano un nuovo taglio per la nuova stagione). Se gli imagologi hanno deciso che nel circolo sportivo frequentato da Agnes tutte le pareti saranno ricoperte da uno specchio gigantesco, non è perché chi si allena ha bisogno di osservarsi durante l'allenamento, ma perché nella roulette imagologica lo specchio è diventato il numero fortunato del momento. Se nel momento in cui scrivo queste pagine tutti hanno deciso che Martin Heidegger deve essere considerato una testa confusa e una pecora rognosa, non è perché il suo pensiero sia stato superato da altri filosofi, ma perché nella roulette imagologica egli è diventato un numero sfortunato, un anti-ideale. Gli imagologi creano sistemi di ideali e anti-ideali, sistemi che hanno breve durata e ognuno dei quali viene rapidamente sostituito da un altro, che influenzano il nostro comportamento, le nostre opinioni politiche e il nostro gusto estetico, il colore dei tappeti e la scelta dei libri, con la stessa forza con cui un tempo riuscivano a dominarci i sistemi degli ideologi.
  Dopo questi commenti posso tornare alla considerazione iniziale. L'uomo politico dipende dal giornalista. E da chi dipendono i giornalisti? Dagli imagologi. L'imagologo è uomo di convinzioni e di principi: esige dal giornalista che il suo giornale (canale televisivo, stazione radio) risponda al sistema imagologico di quel dato momento. Ed è questo che gli imagologi verificano di tanto in tanto, quando decidono di appoggiare questo o quel giornale. Un giorno si soffermarono in tal modo anche sulla stazione radio dove lavorava Bernard e dove Paul teneva ogni sabato una breve rubrica personale dal titolo Il diritto e la legge. ......... Milan Kundera, L' immortalità, pp. 128-133, Adelphi, 1990.

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