giovedì 13 settembre 2012

LO STATO LIBERALE IN ITALIA -Continuazione 5-


Lo Stato unitario nazionale di diritto, in Italia, si afferma nel 1861: nel 1866 venne annesso il Veneto e nel 1870 Roma la quale fu designata capitale del regno. L' Unità d' Italia derivò dalla innegabile forza ed energia sviluppate dal Movimento risorgimentale capace di mobilitare cultura, politica ed eserciti cementandoli con una forte moralità. Una colossale produzione di discorsi pubblici incentrati sulle parole: sangue, onore, martirio, dignità, patria, libertà e unità. Il Risorgimento fu anche una grande esperienza di violenza reale e sublimata e di ferreo disciplinamento sociale al servizio delle istanze libertarie, appartenuto e gestito dalla nobiltà e dall' alta borghesia produttiva e commerciale, capace di esprimersi con un linguaggio politico variegato ed efficace, anche se, non sostanzialmente evolutivo.
Tutti i contadini i braccianti e il proletariato urbano furono esclusi dalla partecipazione civile, militare, sociale e politica che si sviluppò intorno al Risorgimento ma non furono solo esclusi, come era stato “normale” nella Storia, furono emarginati consapevolmente perchè ritenuti masse popolari informi da emancipare gradualmente perchè pericolosi e votati alla delinquenza, nel frattempo furono inquadrati, dallo Stato “illuministico”, in rigidi sistemi di utilità al servizio dell' industria, della riproduzione per fornire figure al nascente esercito regio, per pagare le tasse e per essere impiegati nell'industria.
L' unità, tanto agognata, si compì quasi insperatamente e improvvisamente, dopo un lungo periodo di impegno: dalle repubbliche giacobine di fine Settecento e dopo tre guerre d' indipendenza contro l' Austria (la terza a unità già proclamata) e la spedizione dei Mille contro i Borboni, nella forma della monarchia savoiarda, già Regno di Sardegna.
Lo Stato unitario regio fu proclamato a marzo del 1861 e il 21 ottobre del 1861, in tutte le provincie meridionali e in Sicilia ,e, due settimane dopo nelle Marche e in Umbria, ci fu un massiccio ricorso ai plebisciti (poi usati anche per il Veneto nel 1866) nella forma voluta da Cavour: agli elettori non veniva lasciata altra scelta che quella di accettare o respingere “in blocco” l' annessione allo Stato sabaudo: la sua forma di governo, i suoi ordinamenti e le sue leggi. La partecipazione fu del 75%-80% a maggioranza di si. La legge elettorale del regno di Piemonte e Sardegna, poi adottata anche in Italia, prevedeva un suffragio molto ristretto, in base al censo: solo l’1.9 per cento degli italiani aveva diritto di voto. Fra 1860 e 1870 più di tre milioni di ex sudditi degli antichi Stati italiani si espressero con meccanismi differenti ma sempre caratterizzati dall’applicazione del suffragio universale (maschile), allargato (solo nel caso dei plebisciti), maschi adulti maggiorenni, in favore, prima dell’ingrandimento dello Stato costituzionale piemontese, poi della progressiva costruzione del Regno d’Italia sotto la dinastia dei Savoia. Decine di migliaia di essi, appartenenti ai Ducati di Modena e Reggio, di Parma e Piacenza e alle province di Padova, Vicenza, Treviso e Rovigo, avevano già votato, insieme ai lombardi, nella primavera del 1848 per la formazione (inattuata) del Regno dell’Alta Italia, mentre i cittadini delle «provincie parmensi» furono convocati separatamente anche nell’agosto 1859, prima del voto plebiscitario che coinvolse l’Emilia e le Romagne a metà marzo 1860. In seguito ad alte benemerenze patriottiche furono chiamate al voto plebiscitario anche alcune donne.
Il discorso retorico pubblico si era già messo in moto, in modo formidabile, in favore dell' investitura del re piemontese: padre, santo e guerriero, lontanissimo dalla popolazione ma reso familiare attraverso la polisemia della locuzione «Re eletto», attribuita a Vittorio Emanuele II e significativamente vergata insieme alla sua effigie sulle monete d’argento da cinquanta centesimi, da una e da due lire eseguite dalla zecca di Firenze all’indomani del plebiscito toscano del 1860. Per la sua ambiguità semantica, l’espressione «Re eletto», presente fin dal settembre 1859 nella formula di giuramento adottata per impiegati e militari dagli Stati emiliani e dalla Toscana, si presta perfettamente a una declinazione religiosa,salvifica e provvidenziale. Nei molteplici frammenti del discorso plebiscitario, «l’eletto della Nazione» diventa così il «Re Salvatore», il «Redentore Re d’Italia», «l’Angelo di Dio» e l’«uomo mandato da Dio», un «Miracolo di Re».
Primo Presidente del consiglio dei ministri del governo del re fu Camillo Benso, conte di Cavour, esponente della destra riformista, il quale era stato così abile, nel 1852, da accordarsi con l' esponente di centrosinistra, Rattazzi per riuscire a fare riforme liberali e non tenere il parlamento bloccato su posizioni conservatrici rappresentate da d' Azeglio e dal re. Questo accordo Cavour-Rattazzi passerà alla storia come un accordo negativo che verrà definito, in tono dispregiativo connubio ma permise di dare centralità al parlamento e non tenerlo bloccato su posizioni particolari e permise di attuare un programma liberale di difesa delle istituzioni costituzionali e di progresso civile e politico.
Appena sorto e diviso al suo interno, lo Stato italiano ebbe già ambizioni colonialiste le quali furono mortificate nella battaglia di Adua, momento culminante e decisivo della guerra di Abissinia, la quale ebbe luogo il 1º marzo 1896 nei dintorni dell'omonima località, tra le forze italiane, comandate dal tenente generale Oreste Baratieri, e l'esercito abissino del negus Menelik II. Gli italiani subirono una pesante sconfitta, che arrestò per molti anni le loro ambizioni coloniali sul corno d'Africa ma che si ripresentarono ancora incautamente durante il periodo fascista.
Il proletariato urbano, mai tenuto in considerazione, presentò le sue istanze e fu preso a cannonate dal generale Bava Beccaris, a Milano, nel 1898. Le riforme furono sempre insufficienti a garantire vero progresso civile e mobilità sociale.
E il buon Governo? Negli anni '80 dell''800 la classe politica liberale rivelò la sua natura nello scandalo della Banca Romana,
un caso politico-finanziario che coinvolse alcuni settori della Sinistra storica, accusati di collusione negli affari illeciti della Banca Romana, ex Banca dello Stato Pontificio, uno dei sei istituti che all'epoca erano abilitati ad emettere moneta circolante in Italia. Nel giugno del 1889 il Ministro dell'Agricoltura, Industria e Commercio del primo Governo CrispiLuigi Miceli, dispose un'indagine ispettiva su tutti gli istituti di emissione. L'inchiesta fu affidata al senatore Giuseppe Giacomo Alvisi e al funzionario del Tesoro Gustavo Biagini. L'indagine dette risultati contraddittori: fu riscontrato un disavanzo di nove milioni di lire, reintegrato tuttavia il giorno successivo e spiegato con l'"imperizia" degli inquirenti.
Il 30 giugno 1891, il primo Governo di Rudinì si oppose a che il senatore Alvisi riferisse in Senato i risultati dell'ispezione da lui condotta "in nome dei supremi interessi del Paese e della Patria"
Prima della sua morte, avvenuta il 24 novembre 1892, Alvisi confidò ad alcuni amici i risultati dell'inchiesta, che vennero resi noti il 20 dicembre 1892 dal deputato radicale Napoleone Colajanni: la Banca Romana, a fronte dei 60 milioni autorizzati, per cui possedeva sufficienti riserve auree, aveva emesso biglietti di banca per 113 milioni di lire, incluse banconote false per 40 milioni emesse in serie doppia.
Per accertare le modalità di quelle emissioni fu proposta un'inchiesta parlamentare a cui si oppose il presidente del Consiglio Giovanni Giolitti che promosse invece un'inchiesta presieduta dal primo presidente della Corte dei Conti Enrico Martuscelli. La contrarietà di Giolitti a promuovere un' inchiesta parlamentare gettò molte ombre sul suo operato e destò molti interrogativi mai chiariti. Si sono fatte delle ipotesi su chi abbia usufruito della liquidità in eccesso che sembrerebbe fosse stata destinata a coprire il coinvolgimento nella faccenda del re Umberto I, il quale era fortemente indebitato con la banca.
Il 20 gennaio 1893 Martuscelli riferì l'esistenza delle irregolarità: il governatore della Banca Romana Bernardo Tanlongo e il direttore Michele Lazzaroni vennero arrestati, mentre il deputato Rocco de Zerbi, contro cui la Camera dei deputati aveva concesso l'autorizzazione a procedere per l'accusa di aver appoggiato per denaro la dirigenza della Banca Romana, morì improvvisamente, probabilmente suicida.
Dal carcere Bernardo Tanlongo (l'ex governatore della Banca Romana) affermò di aver dato cospicue somme anche a diversi presidenti del consiglio, tra cui Giovanni Giolitti e Francesco Crispi. Giolitti, in risposta ad interrogazioni ed interpellanze parlamentari, negò di essere stato a conoscenza della relazione Alvisi-Biagini e di aver ricevuto denaro dalla Banca.
Il 21 marzo 1893 fu nominato un comitato di sette parlamentari che il 23 novembre 1893 presentò al presidente della Camera la relazione finale nella quale si affermava che fra i beneficiari dei prestiti vi erano 22 parlamentari, fra cui Crispi. Il processo del 1894 si concluse con l'assoluzione degli imputati: per evitare che l'inchiesta travolgesse uomini di spicco della politica italiana, i giudici nella sentenza denunciarono la sparizione di importanti documenti, necessari a provare la colpevolezza degli imputati. Il procedimento penale venne quindi archiviato senza emettere alcuna condanna. Sul piano politico, il procedere del processo penale e dello scandalo derivato dalla vicenda, con il sospetto di coinvolgimento degli uomini politici e di occultamento delle prove, portò nel novembre 1893 ad una crisi politica e alle dimissioni di Giovanni Giolitti da capo del Governo, sostituito in dicembre da Francesco Crispi. Giolitti sarebbe tornato alla presidenza del Consiglio soltanto dieci anni dopo. Tra la fine del 1893 e l'inizio del 1894 crollarono il Credito mobiliare e la Banca Generale, ma il nesso tra questi fallimenti e le vicende della Banca Romana è assai tenue.La posizione degli storici qual' è? La Banca romana aveva impegnato cospicue somme nell' edilizia, negli anni in cui Roma, in rapida espansione era stata attraversata da una febbre speculativa che si arrestò rovinosamente di fronte alla crisi di fine anni' 80 che colpì il settore delle costruzioni facendo fallire le imprese debitrici. Ecco la stampa di cartamoneta. Ma lo scandalo della Banca romana rimane come un esempio negativo, continuamente ripetuto, dei danni che può provocare l' intreccio pericoloso, non trasparente, fra il mondo politico, la stampa e la speculazione in assenza di regole precise e di onestà politica. Ciò che è innegabile è il fatto che Crispi e Giolitti si servirono del denaro della Banca per influenzare la stampa e l' opinione pubblica in occasione delle campagne elettorali. La politica, in quel momento storico,  perde l' occasione di fare chiarezza e di proporsi come garante dello Stato e del bene comune arrabattandosi sempre intorno alle figure dell' uomo forte, capace di rimettere in ordine il paese e difenderlo dalla classe operaia. Nonostante l' evidente comportamento discutibile di entrambi a Giolitti subentrò Crispi, ancora più coinvolto nello scandalo! 
Possiamo trarre delle prime conclusioni?
  • Lo Stato italiano non nasce rispettando la teorizzazione dello Stato moderno, il quale prevede un contratto dal basso che autorizza, secondo parametri razionali supportati dal Diritto ma viene imposto dall ' alto da una elite conservatrice e nasce per motivi economici, non della collettività ma particolari, utilizzando mirabilmente, con l' uso di una retorica molto efficace, un sentimento unitario emozionale e morale, che aveva espresso energie mirabili dal basso, senza riuscire a tradurlo in buona politica.
  • Lo Stato italiano, non avendo vincoli di contratto, non agisce per il bene comune e a salvaguardia dei cittadini ma per l' interesse esclusivo dello Stato e degli interessi particolari dei governanti.

  • Lo stato italiano dichiara e porta la guerra aggressiva

  • Lo Stato italiano non crea benessere per i suoi sudditi

  • Lo Stato italiano ignora le istanze repubblicane

Riallacciandosi a strumentali retoriche risorgimentali a cui si aggiungono nuove retoriche guerresche neo-virilizzanti: nazionalismo e futurismo, con l' adesione degli intellettuali del tempo, ad esclusione di Croce, l' Italia entra nella Prima guerra mondiale. All’inizio della guerra (1914) l’Italia era alleata degli Imperi Centrali nella Triplice Alleanza, ma, dato che l’alleanza aveva carattere difensivo (e la guerra era stata dichiarata dall’Austria) e non era stata preventivamente consultata sulla dichiarazione di guerra, il governo italiano fece presente di non sentirsi vincolato dall’alleanza e che, pertanto, sarebbe rimasto neutrale. Successivamente le pressioni diplomatiche di Gran Bretagna e Francia la spinsero a firmare il 26 aprile 1915 un patto segreto all’insaputa dell’alleato austriaco, detto Patto di Londra, nel quale l’Italia si impegnava ad entrare in guerra entro un mese in cambio di alcune conquiste territoriali che avrebbe ottenuto dopo la guerra: ilTrentino, il TiroloTriesteGorizia, l’Istria (a eccezione della città di Fiume), parte della Dalmazia, il protettorato sull’Albania, su alcune isole del dodecanesoe alcuni territori dell’Impero Turco, nonché un’espansione delle colonie africane, a scapito della Germania (l’Italia in Africa possedeva già LibiaSomalia italiana edEritrea). 
Dopo la Prima guerra mondiale si parlerà di esperienze di massa per tutte quelle esperienze umane che riguardano la condivisione comune a un gran numero di persone. Il concetto non ha più quella valenza paternalistica e censuaria che caratterizzava il primo uso del termine “masse popolari”: ora il termine masse popolari ha la tendenza ad inglobare tutta la società. Società di massa, esperienze di massa, desideri di massa, democrazia massificata, arte di massa, cultura di massa, retorica di massa, saranno termini che si imporranno proprio dopo la Prima guerra mondiale, con la morte di massa: militari e civili. Gli studi sul n. di morti, in Italia, è ancora in atto: presumibilmente sui due milioni, il 35% dei mobilitati. L' Italia aveva un pil annuo di 95 miliardi; la guerra costò 157 miliardi (stime approssimative).
Dopo la morte dei padri e a causa del fallimento dell' idea di pace, la famiglia patriarcale entra in crisi in concomitanza dell' affermazione del nuovo tipo sociale: il reduce, il combattente, una persona che ha attraversato l' inferno della trincea che ha conosciuto il danno delle retoriche di Stato e che non è più disposto ad accettare il giudizio di minorità che incombe sempre sui cittadini italiani. Il reduce consapevole ed inquieto non venne sufficientemente risarcito dallo Stato sempre lontano dalla società e dai cittadini. I primi reduci si organizzarono per esprimere le loro rivendicazioni e insegnarono l' organizzazione agli altri gruppi sociali, i cui iscritti, diventarono sempre più numerosi. Dopo la compressione dovuta alla guerra tornarono in campo le società di mutuo soccorso, i sindacati preoccupati dell' inflazione e del caro-vita, i cattolici, gli operai i contadini e i socialisti, categorie sociali, che portarono mutamenti nel quadro politico italiano. Le elitès liberali si dimostrarono incapaci di rispondere alle mobilitazioni sociali perdendosi in discussioni che si svolgevano al chiuso di circoli ristretti per poi approdare nelle aule parlamentari. Gradualmente il partito democratico-liberale perse forza e importanza e a nulla valse richiamaretardivamente ancora Giolitti per gestire il cambiamento; si imposero gli appelli al popolo in manifestazione pubbliche: cortei, raduni, adunate e comizi. I cittadini, reduci, civili e donne, erano perfettamente consapevoli del sacrificio che avevano dovuto fare giustificabile solo con l' avvio di una società giusta che si distaccasse completamente da quella politica ingiusta che aveva mandato a morire uomini poveri e ignari e aveva provocato la morte dei civili su decisione di un notabilato inadeguato a gestire il bene pubblico.
In Italia, a causa della perdurante chiusura politica conservatrice, non radicata nella realtà sociale, con un processo di democratizzazione agli inizi e delle strutture economiche arcaiche l' eco della Rivoluzione russa, fu molto forte.
In corrispondenza della crisi del notabilato liberale di destra e di sinistra, la società, esprime nuovi gruppi politici:
  • 1919 i cattolici si organizzano nel Partito popolare italiano, segretario don Sturzo
  • il partito socialista conosce una crescita impetuosa con la corrente massimalista più numerosa di quella riformista
  • formazioni di sinistra a guida Bordiga e Gramsci: le posizioni erano rivoluzionarie
  • 1919 politicamente schierato a sinistra, e su posizioni repubblicane, Mussolini fonda i Fasci di combattimento all' insegna di un marcato nazionalismo e una feroce avversione contro i socialisti.
Furono i fascisti a dare forma al primo episodio di guerra civile, nel 1919, a Milano, contro i socialisti conclusosi con l' incendio della sede dell' Avanti!
Per quanto riguarda i territori ambiti con il Patto di Londra, l' Italia era riuscita a raggiungere i “confini naturali” ma per i territori dell' ex impero asburgico, dovette piegarsi ai nuovi principi wilsoniani che teorizzavano i principi di autodeterminazione dei popoli. Gabriele D' Annunzio parlò di vittoria mutilata e avviò una protesta molto seguita soprattutto dalla borghesia che diede vita a una esperienza politica inedita nella città di Fiume con una ideologia neo-nazionalista che poi, i movimenti autoritari degli anni '20 del '900, avrebbero ripreso.

A rappresentare questo post ho scelto una raffigurazione del principio di separazione dei poteri

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