La
fonte del diritto del nascente Stato liberale italiano fu lo Statuto del
Regno o Statuto Fondamentale della Monarchia di Savoia,
noto universalmente come Statuto
Albertino dal
nome del re che lo concesse (carta ottriata) e lo promulgò: Carlo
Alberto di Savoia,
Statuto,
poi adottato
dal Regno
sardo-piemontese il 4
marzo 1848.
Nel preambolo autografo lo stesso Carlo Alberto definisce lo Statuto
come «Legge fondamentale perpetua ed irrevocabile della
Monarchia sabauda».
Il 17
marzo 1861,
con la fondazione del Regno
d'Italia,
divenne la carta fondamentale della nuova Italia unita
e rimase formalmente tale, pur con modifiche, fino al
biennio 1944-1946 quando,
con successivi decreti
legislativi,
fu adottato un regime
costituzionale transitorio valido
fino all'entrata in vigore della Costituzione
della Repubblica Italiana,
il 1º
gennaio 1948.
Lo Statuto Albertino, nonostante non abbia natura di fonte
legislativa sovraordinata alla legge ordinaria, può essere
considerato a tutti gli effetti un primo esempio di costituzione
breve.
Lo
Statuto
riveste una importanza fondamentale per decodificare la tendenza
“ambigua” della cultura giuridica italiana la quale sceglie la
forma e penalizza la sostanza preferendo non
concedere diritti all' individuo ma lasciarlo immerso nella
presunzione dei diritti. I
diritti vengono enunciati poichè giustificano la stessa esistenza
giuridica la quale è il vero motivo dei diritti subiettivi
individuali trattati poi specificamente dalle leggi. Per
sintetizzare: i Principi vengono enunciati formalmente poi le leggi
li rendono espliciti e godibili,li negano o li annunciano
formalmente ma non vengono sostanziati.
In Italia si svilupperà una lunga tradizione di diritti, enunciati
nel Principio ma negati nella sostanza.
L’inquadramento delle disposizioni statutarie e della successiva
evoluzione legislativa entro un
modello squisitamente statualistico, che, nella formulazione dello Statuto ha ormai abbandonato ogni
suggestione giusnaturalistica, appare chiara nella dottrina dell’epoca
dello Statuto stesso.
Lo Statuto è
la fonte che stabilisce i diritti in modo che
ogni persona si trova limitata, ma garantita al tempo stesso, nelle
sue attività da due punti di vista: verso le altre persone private e
verso la persona collettiva pubblica.
Il diritto nazionale nel suo
grande complesso armonico prefigge e determina sfere d’attività
del privato verso il privato, sfere d’attività del privato verso
il Governo, e sfere d’attività del Governo verso il privato. È
quindi lo Stato che con il diritto oggettivo, ovvero con la legge,
crea la titolarità dei diritti e dei doveri in capo ai cittadini,
non solo nei confronti degli altri privati ma anche nei confronti
dello Stato stesso. Si tratta, come accennato, di una concezione
strettamente statualistica che ben poco concede agli altri due
approcci teorici (storicistico e individualistico) in materia di
diritti di libertà: diritto positivo che oscura il diritto
naturale. In Italia questa situazione sarà ancora più grave
perchè questa strategia che addita i diritti ma non li concede
produrrà una società immobile e in balia di poteri altri dallo
Stato, capaci di organizzarsi come meglio credono in quanto non c' è
nessuna comunità, sul territorio, forte ed emancipata da
costituire un modello valido. Soltanto in seguito all’affermarsi
del regime fascista e della politica liberticida che il medesimo, da
subito, mostrò di voler perseguire, ci si accorse di quanto forieri
di conseguenze funeste fossero gli sviluppi non solo legislativi, ma
anche scientifici dei decenni successivi all’entrata in vigore
dello Statuto. Se lo Statuto avesse avuto sostanza e non forma di
diritto probabilmente non ci sarebbe stata quella regressione
giuridica e di civiltà realizzata con il regime fascista e non ci
sarebbe stata l' abitudine alla regressione civile che è una
costante derivata dalla politica di governo dello Stato italiano che fa precipitare sempre la società in vuoti di
civiltà che saranno una costante dal periodo post-unitario a oggi.
PRINCIPIO
DI EGUAGLIANZA
Si
può portare come esempio di vuoto di civiltà la riflessione intorno
al Principio di eguaglianza:
Art.
24.dello Statuto - Tutti i regnicoli (abitante
naturale di un regno in rapporto ai diritti di cui può godere),
qualunque sia il loro titolo o grado, sono eguali dinanzi alla legge.
Tutti godono egualmente i diritti civili e politici, e sono
ammissibili alle cariche civili, e militari, salve le eccezioni
determinate dalle Leggi-
Pur
nella sua accezione di mera eguaglianza in senso formale, il
principio sancito dall’art. 24 dello Statuto ha conosciuto palesi
violazioni sia da parte del legislatore del periodo liberale, che,
successivamente, da parte di quello fascista.
Si
pensi, innanzitutto alla disciplina dei rapporti tra uomo e donna,
che si presenta come ispirato, per molti versi, all’opposto
principio della diseguaglianza giuridica. Ciò vale, in primo luogo,
per il diritto di voto, riservato ai soli cittadini di sesso maschile
ma vale anche per quanto disposto dal codice civile del 1865 e dal
coevo codice di procedura civile, in base ai
quali
la donna non poteva, in linea di principio, esercitare l’ufficio di
tutore, di protutore e di curatore (art. 268 c.c.), né quello di
testimone negli atti di stato civile (art. 351 c.c.) e nei testamenti
(art. 788 c.c.). Parimenti, la donna era esclusa dall’ufficio di
arbitro nei compromessi (art. 10 c.p.c.).
Limitazioni
ancora più significative erano poste a carico delle donne sposate:
queste non potevano assumere una cittadinanza diversa da quella del
marito, anche in caso di separazione personale (art. 10, legge n.
555/1912) e perdevano la cittadinanza italiana in caso di matrimonio
con uno straniero (art. 11; viceversa, la donna straniera acquistava
la cittadinanza italiana a seguito del matrimonio con un cittadino:
art. 10, comma 2); erano tenute a risiedere nel domicilio del marito;
non potevano, senza l’autorizzazione di quest’ultimo, donare,
alienare beni immobili, sottoporli ad ipoteca, contrarre mutui,
cedere o riscuotere capitali, costituirsi assicurazioni, transigere o
stare in giudizio relativamente a tali atti (art. 134 c.c. 30 1865),
accettare mandati (art. 1743), esercitare attività commerciali
(art.13 cod. commercio). A queste, si debbono aggiungere le
limitazioni al diritto di educare i figli e di amministrare i beni,
che erano imposte alle donne che passavano a seconde nozze (artt. 237
e 239 c.c. 1865).
Tali
discriminazioni subirono solo un parziale temperamento con la
legge
n. 1176/1919 che abolì l’istituto dell’autorizzazione maritale
di cui agli artt. 134 e 1743 c.c. e 13 cod. commercio, sopprimendo,
altresì, l’art. 268 c.c. (gli artt. 351 e 788 erano già stati
abrogati con la legge n. 4167/1877). La stessa legge ammise la donna
ad esercitare tutte le professioni ed a ricoprire tutti gli impieghi
pubblici, fatta eccezione per quelli che implicassero l’esercizio
di funzioni giurisdizionali o l’esercizio
di
diritti politici, ovvero che attenessero alla difesa militare dello
Stato (art. 7; peraltro, un regolamento del 24 novembre 1933 limitò
drasticamente l’ammissione di personale femminile nelle pubbliche
amministrazioni).
Forti
disuguaglianze tra uomo e donna nel diritto di famiglia rimasero
anche nel codice civile del 1942. Esso assicurava, infatti, al
marito una posizione assolutamente preminente sia nei confronti dei
figli (l’art. 16 stabiliva: «Il figlio è soggetto alla potestà
dei genitori sino alla maggiore età o all’emancipazione. Questa
potestà è esercitata dal padre. Dopo la
morte
del padre e negli altri casi stabiliti dalla legge essa è esercitata
dalla madre»), sia nei confronti della moglie (l’art. 144,
relativo alla potestà maritale, stabiliva: «il marito è il capo
della famiglia; la moglie segue la condizione civile di lui, ne
assume il cognome ed è obbligata ad accompagnarlo dovunque egli
crede opportuno fissare la sua residenza»).
Ma
le violazioni del principio di eguaglianza ad opera del legislatore
fascista non si fermano qui: oltre alla legislazione razziale ed a
quella contro gli oppositori politici (sulle quali, si vedano,
rispettivamente, i parr 2.12.1 e 2.16.1) si deve qui accennare agli
aberranti provvedimenti contro i celibi, varati al fine di
assecondare la politica di incremento demografico e di
“difesa
della razza”, che fu uno dei capisaldi del regime (si veda anche il
Titolo X del Libro II del codice penale del 1930 relativo ai “delitti
contro l’integrità della stirpe”, ed in particolare l’art.
553, che puniva la propaganda dei mezzi anticoncezionali). Tali
provvedimenti culminarono nella previsione di una imposta speciale
sui celibi di età compresa tra i 25 ed i 65 anni «per il solo fatto
del loro stato» (art. 1, r.d. n. 2132/1926. Successivamente, in
epoca fascista, la legge n. 2693/1928, introdusse l’obbligatorietà
del parere del Gran Consiglio del Fascismo per i disegni di legge in
materia costituzionale, cosicché parte della dottrina ritenne che,
in mancanza di tale parere, le leggi dovessero essere ritenute
invalide (peraltro, di tale opinione non vi fu alcun riscontro nella
prassi giurisprudenziale).
Questa
disarmonia fra diritto formale e sostanzialità del godimento dei
diritti, dichiarati nei Principi, diventerà una costante della
storia del diritto che ritroviamo anche dopo la Costituzione
della Repubblica Italiana
approvata dall'Assemblea
Costituente il 22
dicembre 1947 e promulgata dal capo
provvisorio dello Stato Enrico
De Nicola il 27
dicembre 1947.
Fu pubblicata nella Gazzetta
Ufficiale della Repubblica Italiana n.
298, edizione straordinaria, del 27
dicembre 1947 ed
entrò in vigore il 1º
gennaio 1948.
Anche per la realizzazione legislativa del dettato Costituzionale si
può parlare di un periodo di congelamento del diritto sovraordinario
e di disarmonia
storica fra forma e sostanza.
Nessun commento:
Posta un commento